Il Collettivo RicercAzione è nato dall’iniziativa di alcuni aderenti al percorso politico della rete “Campagne in Lotta” – una realtà militante, composta da lavoratori stranieri e italiani, ricercatori, associazioni, collettivi, gruppi d’acquisto e piccoli produttori agricoli. A sua volta, la Rete si è formata dall’intreccio di diverse esperienze di lotta. Di queste, due sono le più significative: da un lato, il percorso rivendicativo su lavoro, permesso di soggiorno e diritto all’abitare, portato avanti dall’Assemblea dei Lavoratori Africani a Roma, creata a seguito della loro deportazione forzata, da parte dello Stato italiano, dopo la rivolta di Rosarno del 2010. Dall’altro lato, la Rete prende le mosse anche dall’esperienza del primo sciopero auto-organizzato dei lavoratori stranieri stagionali, che ebbe luogo a Nardò nell’estate 2011.

Dal 2012, Campagne in Lotta promuove interventi collettivi nei luoghi di raccolta intensiva di frutta e ortaggi (in particolare la Capitanata, in provincia di Foggia; la Piana di Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria; la zona di Saluzzo, provincia di Cuneo; e la zona di Palazzo San Gervasio, provincia di Potenza), dove si impiega prevalentemente manodopera immigrata proveniente dall’africa sub-sahariana e dall’Europa dell’est, in condizioni di sfruttamento estremo. In questi contesti, pratiche come la scuola di italiano, la ciclofficina, l’assistenza legale, una radio pirata e la diffusione di informazioni sui diritti dei lavoratori agricoli (contratti provinciali, indennità di disoccupazione ecc.) vengono portate avanti al fine di rompere l’isolamento dei lavoratori stranieri, nelle campagne e non solo. Isolamento che si manifesta in maniera eclatante nell’espansione costante di baraccopoli, ghetti o agglomerati di abitazioni abbandonate e rioccupate (come nei casi di Foggia, Saluzzo, Boreano, fra gli altri), dove vivono braccianti e spesso anche prostitute; ma che viene riprodotto anche con l’istituzione di tendopoli e campi container da parte di enti pubblici e del cosiddetto terzo settore (come nel caso di Rosarno) o delle organizzazioni datoriali (come è accaduto quest’anno a Saluzzo). È in questi luoghi che si svolgono gli interventi di Campagne in Lotta, per la composizione e auto-organizzazione dei lavoratori, ed il raggiungimento di un’emancipazione sia individuale che collettiva.

D’altra parte, la generale parcellizzazione della forza lavoro, speculare a quella dell’organizzazione del sistema produttivo, rende molto complesso pensare a rivendicazioni collettive ed allargate. Sebbene l’obiettivo della rete sia quello di comporre diverse istanze rivendicative, che riguardano non soltanto i lavoratori migranti impiegati nel settore agricolo ma l’intera filiera agroalimentare e oltre, partire dalla condizione dei braccianti immigrati assume un significato preciso: come gradino più basso e sfruttato di una catena produttiva e riproduttiva, i braccianti stagionali – comunitari ed extra-comunitari –, ed ancor di più le donne, anch’esse immigrate, che ne soddisfano le esigenze riproduttive, sono i soggetti più deboli e ricattabili di un sistema di frammentazione, repressione e controllo che si ripercuote sui lavoratori tutti. Favorire percorsi di informazione, accesso ai servizi ed auto-organizzazione, ma anche di ricerca ed auto-inchiesta in questo ambito significa quindi mirare alla composizione promuovendo il rispetto di diritti minimi ma sistematicamente violati, come primo passo per la formulazione di rivendicazioni più alte e generalizzate. Tuttavia, la pratica politica dei soggetti aderenti alla rete non si basa su un piano precostituito, dove le fasi della lotta sono individuate a priori, ma su un percorso che va definendosi a partire dalla pratica dei soggetti che lo mettono in atto. D’altro canto, lo sfruttamento del lavoro agricolo immigrato, la sua estrema marginalizzazione e precarizzazione appaiono come il laboratorio di sistemi di controllo e gestione del lavoro (dove questo è inteso in senso ampio, in un contesto in cui è sempre meno distinguibile dall’esistenza stessa) basati sull’emergenza e la sospensione del diritto, che vanno estendendosi progressivamente. La loro comprensione, e di pari passo il loro contrasto, appaiono quindi tanto più necessari quanto più essi si prefigurano come forme di controllo in espansione a vari livelli. Infine, occuparsi della produzione agricola significa porre l’accento su risorse fondamentali quali il suolo ed il cibo, dalla cui gestione dipendono molti altri settori – economici e non solo.

In un contesto così complesso, la raccolta di informazioni e l’analisi svolgono, com’è ovvio, un ruolo fondamentale per l’azione politica, come suo motore e allo stesso tempo come strumento – a partire da una lettura critica dei dispositivi di controllo: in primis, le leggi sull’immigrazione come leggi sul lavoro, che di fatto istituiscono il reato di disoccupazione e criminalizzano lo “straniero”, rendendolo più ricattabile e permettendo così l’abbassamento del costo del lavoro tout court. Come molti critici hanno sottolineato, dentro e fuori l’accademia, tali fenomeni si inseriscono in un contesto più ampio di erosione dei diritti minimi e precarizzazione generalizzata, dove, come accennato prima, l’emergenzialità e la sospensione del diritto diventano lo strumento di governo non solo dell’immigrazione, ma del lavoro e dell’esistenza stessa (come dice bene Loic Wacquant quando parla di ‘criminalizzazione dei poveri’). La retorica della “crisi” illustra in maniera esemplare questa tendenza, così come l’endemica corruzione e la capillare presenza della cosiddetta criminalità organizzata, che gestisce parti significative della produzione e distribuzione dei prodotti alimentari, tra gli altri. Va poi sottolineato come tali strumenti di controllo agiscano a livello soggettivo e quindi anche, e soprattutto, affettivo – individuando quindi in questi aspetti uno dei nodi centrali dell’agire militante, per la produzione di contro-soggettività in un’ottica compositiva.

Accanto però all’acquisizione ed elaborazione critica di analisi per così dire sistemiche, il percorso di ricerca che caratterizza la rete ed il collettivo ricercAzione si propone anche di stimolare la conoscenza di specifici territori, modalità produttive e di gestione del lavoro, attraverso pratiche che potrebbero definirsi trans- o extra-disciplinari: fra queste, la mappatura degli insediamenti spontanei di lavoratori; la ricostruzione delle filiere agricole che dai campi portano alle aziende di trasformazione e poi ai magazzini, per arrivare infine ai supermercati; il monitoraggio delle innumerevoli tipologie di esclusione o ‘inclusione differenziale’ (termine proposto da Sandro Mezzadra e Brett Neilson) dei lavoratori stranieri, che si articolano nelle diverse fattispecie dei permessi di soggiorno (o nella loro assenza), ma anche nella miriade di irregolarità ed eccezionalità burocratiche che investono questioni come la residenza, il titolo di viaggio, l’accesso ai servizi sanitari – per non parlare delle questioni riguardanti il lavoro, la presenza o, nella maggior parte dei casi, l’assenza di contratti, peraltro variegati nelle loro tipologie; la registrazione degli stessi; o il versamento da parte dei datori di lavoro dei contributi previdenziali. Evidentemente, tali percorsi di conoscenza hanno come obiettivo quello di fornire strumenti utili al contrasto dei dispositivi di controllo e sfruttamento.

La ricerca è quindi organica alle pratiche politiche della rete, ed allo stesso tempo essa è possibile solo partendo da un agire pratico e collettivo, sebbene non univoco né privo di conflittualità interne. La ricerca è perciò concepita come una produzione di sapere che si discosta, almeno in parte, da quella accademica, essendo appunto una produzione collettiva, che mette in rete e compone diverse competenze e prospettive, a volte anche in contrasto tra loro, decostruendo quelle gerarchie che attribuiscono alla figura dell’intellettuale una voce privilegiata nell’analisi critica dell’esistente. Si tratta di una produzione di saperi schierata ma non ideologica, aperta ad una continua riformulazione e contaminazione a partire dall’esperienza, capace di contribuire alla costruzione di strumenti che non siano privatizzati o comunque appannaggio di pochi (in una dimensione liquida” e pubblica del sapere), ma che soprattutto siano riproducibili e rimodulabili altrove. La riproducibilità delle pratiche e la loro modificazione a seconda dei contesti in cui si sviluppano alimentano e stimolano costantemente il cambiamento.

Il termine “ricerca” in questo contesto assume quindi una doppia accezione: da un lato, un’analisi critica dell’esistente, a partire da un’inchiesta sul campo, con le caratteristiche sopra elencate. Dall’altro, per ricerca si intende qui una sperimentazione pratica di strumenti di lotta ma anche di forme alternative di esistenza collettiva. Il Colectivo Situaciones ha fissato efficacemente questo doppio binario definendo il primo aspetto come ‘ricerca militante’ (definita come l’invenzione di “nuove forme di pensiero e produzione di concetti che rifiutino i processi accademici, rompendo con l’immagine di un oggetto da analizzare e mettendo al centro l’esperienza soggettiva”) ed il secondo come ‘militanza di ricerca’ (che significa “creare modalità di militanza che sfuggono alle certezze politiche stabilite a priori ed abbracciano la politica come ricerca”). Nei suoi interventi, della durata sempre superiore ad un mese, la rete si affida al lavoro volontario di chiunque sia interessato a questa esperienza politica, in collaborazione con le realtà territoriali che aderiscono al percorso. Si tratta di un processo che investe le soggettività di tutti i partecipanti nel loro complesso: un’esperienza di vita e lavoro in comune, in cui le idee e le pratiche sono in continua discussione ed evoluzione proprio in virtù di questa forma di collettivo, ed in cui gli aspetti ludici ed affettivi si combinano e diventano parte integrante di quelli lavorativi e strategici. Il motore dell’azione sono il desiderio ed il piacere, contro un’ottica lavorista ed incentrata sul concetto di dovere. Ovviamente, all’interno di questi percorsi il conflitto e la contraddizione occupano uno spazio significativo, generando momenti di tensione e difficoltà ma in generale, a posteriori, produttivi per il lavoro comune. Nel corso dell’ultimo anno, la rete ha aggregato non soltanto militanti italiani solidali alla causa dei lavoratori agricoli migranti, ma i lavoratori stessi, che in alcuni casi sono diventati anche loro volontari ed hanno condiviso l’esperienza del collettivo. Com’è ovvio, questo ha rappresentato un notevole valore aggiunto nel lavoro di Campagne in Lotta, scardinando definitivamente ogni distinzione e potenziale gerarchia tra ‘italiani’ e ‘stranieri’ e favorendo una produttiva messa in discussione di concetti e pratiche politiche a partire da una prospettiva parzialmente ‘altra’ e da una volontà di contaminazione reciproca. La militanza di ricerca, così come la ricerca militante, sono perciò anche forme attive di contro-pedagogia, in cui non esiste gerarchia di saperi ma in cui tutti sono ugualmente insegnanti e studenti. Così, sebbene durante gli interventi della rete si portino avanti corsi di italiano come potenziale strumento di emancipazione per i lavoratori (in cui si insegna la lingua attraverso esempi che riguardano il lavoro, la casa, i documenti, fra gli altri), si cerca di instaurare anche una pratica di scambio linguistico, in cui ognuno insegna la propria lingua. Ugualmente, durante l’ultimo intervento in Capitanata si è sperimentata la pratica del teatro dell’oppresso come forma pedagogica creativa ed auto-diretta per individuare percorsi possibili di emancipazione, in cui tutti i partecipanti sono egualmente coinvolti.

In generale, si tratta dunque di una pratica di costante decostruzione, in un’ottica contro-individualista del sapere e della conoscenza che sola rende possibile la costruzione di una collettività politica in grado di agire in un’ottica trasformativa, provando a scardinare il fenomeno partendo dal fenomeno stesso e vivendone appieno le contraddizioni. Questa decostruzione, che apre possibilità di costruzione di contro-soggettività è intrinsecamente legata alla decostruzione dei dispositivi di controllo e sfruttamento.

Per essere tale, quindi, la ricerca militante deve necessariamente nutrirsi e nutrire la collettività, poiché solo e soltanto da questo margine, complesso e contraddittorio, è possibile creare le condizioni affinché sia possibile il conflitto. È la messa a fuoco delle contraddizioni sociali a permettere uno sviluppo di conflitti che possano andare al di là del riot improvviso, che nella maggior parte dei casi viene soffocato duramente dalla macchina repressiva, e che spesso annulla la possibilità di una ricomposizione reale della forza lavoro. La ricercAzione è quindi anche un contro-dispositivo, in quanto funzionale alla costruzione di un percorso politico altro, che si dispieghi nell’attuazione del percorso stesso. In questo senso, in una prospettiva di trasformazione dell’esistente, l’atto della ricerca individuale e soprattutto svincolata dalla partecipazione all’azione concreta ne delegittima il fine, asservendola a logiche di riproduzione capitalistiche e alle gerarchie istituzionali della conoscenza.

Chi sono quindi i ricercatori in un contesto militante? Siamo tutti ugualmente militanti e ricercatori! Non vi dovrebbe dunque essere una reale separazione tra ricerca e militanza così come non dovrebbe esservi separazione tra l’oggetto e il soggetto della ricerca e della lotta. Attraverso processi decostruttivi del sapere legati alla pratica politica, la ricerca ottiene il proprio superamento, così come il soggetto, agendo collettivamente e restituendo le proprie azioni alla trasformazione dell’esistente, decostruisce se stesso in quanto individuo. La ricerca-azione non trova mai il suo esaurimento in un solo contesto. Al contrario rimanda alla propria capacità epidemica di riprodursi potenzialmente in qualsiasi altro luogo, assumendo forme diverse, creando linguaggi e forme di lotta inediti.